Perchè dovrebbero volere un intercambio culturale con noi?

di Francesca Chinaglia

Il progetto “Fortalecimiento de la Educación y Desarrollo de la Cultura e Idioma de la Población Indígena más Vulnerable”, si realizza in Ecuador, nella città di Puerto Francisco de Orellana, meglio conosciuta come “Coca”, e in particolare nelle comunità indigene della zona, con le nazionalità Shuar, Kichwa e Waorani, in Amazzonia. Gondwana ne cura l’azione che si focalizza sulla creazione di un intercambio tra volontari italiani e popolazione indigena, al fine di generare uno scambio di esperienze, conoscenze e informazioni sulla cultura di appartenenza.

Prima di arrivare a Coca mi sono posta questa domanda numerose volte, riflettendoci sola, con amici e con colleghi. Ma una minima idea sulla questione me la sono fatta solo mettendo piede nelle comunità.

Quando mi è stata presentata la possibilità di realizzare una consulenza esterna ad un progetto per qualche mese nell’Oriente dell’Ecuador non ci ho pensato due volte.

Il progetto si chiama “Fortalecimiento de la Educación y Desarrollo de la Cultura e Idioma de la Población Indígena más Vulnerable atendida por el Vicariato Apostólico de Aguarico”, finanziato dalla CEI, con il supporto in alcune attività da parte di Gondwana; si propone di appoggiare il processo educativo degli studenti indigeni che vivono nelle comunità e la conservazione della cultura e identità dei popoli originari. In particolare, la linea di progetto in cui sono coinvolta vorrebbe favorire un intercambio tra lo “straniero”, rappresentato principalmente da me e la popolazione indigena.

Ho iniziato questa esperienza da quasi due mesi e come mai prima d’ora ho in così poco tempo distrutto stereotipi e idee sbagliate che avevo precostruito su una cultura.

No, la maggioranza degli indigeni della zona del Coca non vive isolata, senza alcun contatto con la tecnologia e vivendo di pesca e caccia.

La mia prima camminata verso la comunità Shuar “El Triunfo” è stata già di per sé significativa in questo senso. Una strada battuta, più o meno tenuta in ordine, collegava la fermata dell’autobus più vicina e il sentiero che portava alla comunità. Strada creata dalla compagnia petrolifera, che ha costruito le sue piattaforme giusto al lato della comunità. La strada chiaramente si interrompe quando si arriva alla piattaforma, si prosegue poi per un sentiero terroso e poco più in là si estende la comunità. Il sole batte forte, gli alberi sul sentiero sono stati tagliati e trovare una zona d’ombra è complicato. Ma pur così la vista è incredibile: l’ecosistema amazzonico è qualcosa di unico e complesso e solo trovarmi lì immersa mi fa ricordare di quanto sia fortunata a poterlo vivere.

El Triunfo è piuttosto grande di estensione, considerando che non ci vivono moltissime famiglie.

Altro stereotipo frantumato: nelle comunità le persone non hanno costruito le case in legno una a fianco all’altra, non cenano e pranzano insieme, non svolgono la maggior parte delle attività insieme. In un paio di occasioni mi è capitato di camminare più di un’ora dalla prima all’ultima casa della comunità.

Siamo arrivati nella comunità dopo una camminata di quasi due ore e chiacchierando con Rosa, la vicepresidente della comunità, ci scontriamo quasi subito con il problema della siccità: sono settimane che non piove. Non c’è acqua per i bagni, che sono presenti, forse un “dono” inviato dallo Stato senza considerare che spesso manca l’acqua e che quindi sono inutilizzabili, e ancor meno per lavarsi.

Questo purtroppo non si è rivelato l’ennesimo stereotipo. Lo Stato arriva a fatica nelle comunità e molti servizi basici sono assenti, come un sistema di raccolta dell’acqua, elettricità e internet. La cooperazione internazionale, con mia grandissima sorpresa, è per lo più assente in questo panorama. Chi arriva nelle comunità, in alternativa, sono i missionari, che negli anni hanno supportato diverse opere di miglioramento delle condizioni, l’ultima fra tutte la realizzazione nel Triunfo di una scuola in mattoni per i bambini della comunità, che la comunità stessa si sta impegnando a costruire.

La comunità ha una scuola per i bambini fino agli 11 anni. Per tutti i bambini, dai 4 agli 11 anni, c’è una sola maestra, che deve cercare di insegnare, indipendentemente dal livello, le basi di tutte le materie previste dal programma. Nel Triunfo, la maestra ha diviso in due la classe, con i più grandi da una parte e i più piccolini dall’altra e si alterna dando le lezioni ad uno e all’altro gruppo. Per i ragazzi più grandi, il colegio più vicino è fuori dalla comunità. Si svegliano ogni giorno alle 4:00 della mattina per poter prendere il bus che passa alle 6:30, percorrendo la strada che avevo percorso quel giorno per arrivare nella comunità, che mi era sembrata infinita. E al ritorno, esattamente la stessa cosa, per cinque giorni alla settimana, per quattro anni.

È un’immagine forte, che unita a tutte le altre di quella giornata, mi ha lasciato un senso di sconfitta.

Ma ritornando alla mia domanda iniziale, io una risposta certa ancora non ce l’ho.

Prima di arrivare a Coca, mi sono chiesta più volte se avesse senso cercare un contatto a tutti i costi con la popolazione indigena, che forse sarebbe risultato irrispettoso e non necessario.

Arrivando qui mi sono ben presto resa conto che non solo il contatto è già avvenuto tempo fa, ma che queste comunità hanno iniziato ad assorbire ormai da tempo tratti di “modernità” e stile di vita globalizzato, non sempre con effetti particolarmente positivi.

A quel punto non è stato molto difficile per me capire che forse un contatto aveva senso, se fatto in un certo modo. Appurato che con o senza di me continuerebbe questo scambio, sto cercando di portare nelle comunità una conoscenza più “sana”, inglese, esperienze personali, utilizzo della tecnologia per pratiche importanti per la comunità e cercando di favorire uno intercambio su racconti della loro e mia cultura, miti e usanze che sia rispettoso e non pressante e necessariamente doveroso.

Tre mesi non sono molti per valutare se questo intercambio sia stato utile o meno per loro. Per quanto mi riguarda, posso già dire che un’occasione come questa capita poche volte nella vita, di avere la possibilità di entrare a contatto con una cultura a me così distante e a cui mai in altre occasioni avrei potuto accedere. Alla fine dei conti, come spesso succede in queste situazioni, hanno verosimilmente insegnato loro a me molto più di quanto io possa mai apportare a loro.

Francesca Chinaglia, cooperante per Gondwana e Vicariato di Aguarico

 

Entrata della comunità El Triunfo
Quattro ragazzi Shuar con il vestito tradizionale delle proprie comunità
Lezione di inglese ai bambini della comunità Shuar El Triunfo
Gruppo di studio con quattro ragazzi della nazionalità Shuar, che studiano all’università per diventare professori bilingue nelle proprie comunità
Precedente
Successivo