La responsabilità di fare

di Antonio Zardini

Stavo procedendo con i miei normali lavori d’ufficio quando Giovanni, il mio coordinatore, si presentó alla mia scrivania e mi disse: “Bene i ragazzi di UNHCR hanno accettato la nostra nota concettuale, bisogna scrivere un progetto sui rifugiati venezuelani e colombiani in un paio di settimane, vuoi prendertene carico insieme ai ragazzi di Coca?”. Il mio primo pensiero fu: “Wow, tocca a noi ragazzi italiani questo compito? Davvero? Che responsabilitá enorme!”. La parola responsabilitá inizió a riverberare nella mia testa e, come una lancia, a penetrare in tutte le considerazioni che avevo fatto su Sucumbios, la provincia amazzonica dell’Ecuador sul confine colombiano. La realtá sociale difficile, la delicata congiuntura internazionale, la povertá e le incertezze di persone, che in fuga dal proprio paese, trovano un rifugio precario a Lago Agrio. All’improvviso mi sono sentito il peso e la complessitá di questo nuovo mondo sopra le spalle.

Responsabilitá é una parola strana. Sin da piccoli i nostri genitori, la scuola o i nostri datori di lavoro ci hanno sempre detto che abbiamo delle responsabilitá, dei doveri. Hanno cercato in maniera piú o meno delicata di farci introiettare il significato profondo di questa parola affinché potessimo essere degli adulti attivi e coscienti del mondo circostante.

Io non mi ci sono mai trovato bene in questa dinamica, ho il problema di avere una specie di rifiuto per le autoritá e per le imposizioni. Quando venivano da fuori queste responsabilitá, quando mi venivano imposti doveri senza che ne condividessi la logica o il significato, ho sempre vissuto in maniera distaccata quello che facevo. Qua in Ecuador sto capendo a pieno il senso di questa parola. La responsabilitá di essere una persona dotata di una certa sensibilitá e preparazione, la responsabilitá di creare nel mio piccolo un mondo migliore e un ambiente dove la cultura della pace sia il fondamento della societá.

 Questa volta non ho sentito alcun senso di distacco, questa volta sapevo che se volevo davvero essere una piccola goccia di solidarietá nel mare magnum delle sofferenze umane dovevo fermarmi e abbracciare tutto questo. É stata una epifany, un momento di crescitá. Ho capito davvero, scrivendo il progetto, che quello che facciamo nel nostro servizio civile ha un impatto reale sulle persone. Ció che possiamo creare con fantasia, sudore e dedizione puó davvero incidere sulle vite di molti. Penso di non essermi mai dedicato cosí tanto alla scrittura, allo studio e al lavoro come in queste tre settimane. Riunioni con UNHCR, tavoli di lavoro, chiamate e stress a non finire per la calma placida con cui si muovono le cose qua in Ecuador. Peró alla sera, quando ti stendi sul letto imprecando perché ancora non ti hanno mandato la tanto agognata conferma sul lavoro fatto, appena prima che il sonno ti colga, non puoi fare a meno di sentirti pieno e ritrovarti con un sorriso ebete stampato in faccia.

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