Fragilità umana

di Antonio Rende, sede di El Coca

2019: siamo nel secolo delle biotecnologie, della lobomotica, della lotta al cambiamento climatico, ormai ci permettiamo di distinguere tra uomini e animali, eppure le forze che ci muovono non sono diverse da quelle di qualsiasi altro animale: paura, egoismo, senso di inadeguatezza, sono sensazioni che caratterizzano e accomunano tutti gli esseri umani.

Quello che sta succedendo in Amazzonia, ci riguarda tutti: è rimasto l’ultimo grande polmone verde di questo pianeta eppure oggi la civiltà “civile” tende a voltare lo sguardo.

Oppure al contrario, quando si cerca di capirne profondamente le problematiche, quasi sempre ci si ferma all’apparenza; noi stessi come volontari siamo stati fino ad ora troppo superficiali.

Ci si ferma in superficie perché andare a fondo è doloroso, perché è più facile puntare il dito, è più facile dire “è colpa dei petroleros” senza rendersi conto che i petroleros siamo noi.

Siamo noi i petroleros ogni volta che prendiamo la macchina per un viaggio inutile e pure per un viaggio di svago, siamo noi gli sfruttatori quando pretendiamo di comprare al prezzo minimo, facendo finta di ignorare che quel prezzo è anche il tempo e la fatica delle persone che ci stanno dietro… però poi ci lamentiamo poi degli stipendi bassi. E quando non facciamo nulla contro la vendita delle armi con cui muiono i bambini yemeniti [https://sputniknews.com/analysis/201709161057449912-saudi-arabia-italy-arms-exports/], o contro i  campi di concentramento in Libia… E questa è solo la punta dell’iceberg.

D’altra parte è facile capire da dove venga questa indifferenza: sono problemi troppo grandi, nessun uomo può affrontarli da solo, come si fa a non sentirsi piccoli, a non dire “e io che ci posso fare?” davanti ai disastri umanitari.

Ed è proprio questo il problema dell’uomo, l’egoismo: non ci siamo resi conto che facciamo tutti parte di un’unica famiglia, che solo insieme si possono risolvere questo tipo di problemi, ci consideriamo come “l’animale sociale” di Aristotele, quando al momento invece siamo più l’“homo homini lupus” di Hobbes.

Dobbiamo assolutamente liberarci delle catene di questa società che ci vuole insicuri e divisi, renderci conto che ogni uomo e donna sono nostri fratelli e sorelle, che se qualcuno cade o sbaglia non va deriso, ma aiutato perché non è un errore suo, ma appartiene a tutti, perché viviamo tutti su questo unico pianeta e quello che succede nel bene o nel male si ripercuote su tutti.

Non ero certo legato al mito del “buon selvaggio”, ma in qualche modo speravo che vivendo così tanto lontano dalla nostra società, e per tanto tempo, i popoli originari sarebbero stati orgogliosi della loro cultura che invece si sta perdendo in molte comunità qui in Amazzonia. Questo è ciò che mi ha forse stupito di più. Ma per quanto diverse le problematiche che affliggono gli indigeni derivano dagli stessi problemi con cui abbiamo a che fare anche noi.

Sono comunque ottimista, penso che il mondo stia prendendo coscienza di sé, e ci sono spinte, già da tempo, che fanno riferimento al mondo come un’unica grande famiglia, nella musica, nell’arte, nella letteratura.

Sarà compito delle nuove generazioni riuscire a superare le catene mentali, a far spazio all’amore anziché all’odio, alla curiosità anziché alla paura, per liberarci del superfluo, che ci rende solo avidi e finalmente riusciremo a sentirci uniti come umanità.