La terra dove vivono le persone libere

di Anna Paola Tarulli

Il viaggio nella valle del Chota, un piccolo paradiso africano situato nel cuore dell’Ecuador.

Dal turismo comunitario di doña Evita, alla casa di accoglienza per i migranti di Carmen: la forza e la passione di grandi donne afro ecuadoriane.

 

La valle del Chota: una regione situata nel cuore dell’Ecuador e delimitata dalle due provincie di Carchi e Imbabura. Una valle povera ma felice al tempo stesso. Un luogo di accoglienza e di condivisione. Casa per alcuni, terra di passaggio per altri. 

Arrivammo al Chota quando il sole era nel suo punto più alto. Notammo subito che il paesaggio che ci circondava non era più verde e rigoglioso come qualche attimo prima, ma pian piano mutava, fino a diventare secco e di colore giallastro. Faceva caldo, molto caldo. Ad aspettarci sotto il sole rovente c’era Liliana: sarebbe stata lei la nostra guida durante tutto il weekend. Prima di addentrarci nei meandri della vita comunitaria, Liliana ci raccontò la storia della valle: la comunità afro ecuadoriana arrivò al Chota nel diciassettesimo secolo, importata dall’Africa per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. L’abolizione della schiavitù e la conquista dell’indipendenza da parte di questa gente fecero sì che si potesse dar vita ad un vero e proprio paradiso terrestre incastrato in una valle, popolato da gente africana.

Dopo una piacevole attesa, cominciammo il nostro viaggio vero e proprio. La mattina, come prima attività, c’era in programma un taller di maschere africane la cui realizzazione era da sempre stata una tradizione immutata nei secoli. Ci portarono in una stanza, uno shop pieno di oggetti interamente realizzati a mano. Ma erano proprio le maschere ciò che maggiormente spiccava per colori e stravaganza. Entusiasti e curiosi di cominciare, ci riunimmo tutti intorno ad un piccolo tavolino quadrato, impazienti di apprendere la tecnica di realizzazione delle maschere afro. Passo dopo passo fummo guidati dalla nostra maestra, bellissima e simpaticissima: iniziammo dalla forma della testa per poi seguire con le labbra, il naso, gli occhi…e per finire le orecchie e i ritocchi. Era incredibile vedere la facilità con cui la nostra insegnante realizzava ogni singola componente del viso. Piano piano le nostre maschere cominciarono ad assumere una forma alquanto bizzarra e per niente somigliante con quello che sarebbe dovuto essere il risultato finale. Ma fu divertente. Fieri del nostro lavoro, salutammo le maschere pronte per essere seccate, e ci recammo nuovamente nel punto di arrivo, pronti per essere smistati nelle varie case che ci avrebbero accolti per tutto il fine settimana.

Il pranzo l’avremmo fatto lì, con le differenti famiglie che ci stavano ospitando. Fu in quel momento che conoscemmo doña Evita: una donna dal carattere forte come una roccia, mamma di tutto il villaggio del Chota, esuberante e piena di vita. Ci si sentiva a casa a stare tutti riuniti intorno allo stesso tavolo, a parlare del più e del meno, ad assaporare la loro cucina tradizionale, a sentirli chiacchierare di discorsi che si fanno in tutte le famiglie del mondo, quando si mangia.  Terminato il pranzo, arrivò il momento della attesissima siesta. Lenzuola fresche, finestra aperta e sole che illuminava la stanza. In casa si respirava l’odore dell’estate. 

Dopo aver riposato un po’, ci addentrammo nella vita della comunità partecipando alla celebrazione di una boda. In paese era festa per tutti, non solo per gli sposi e per i loro parenti e amici. Ma ciò che attendevamo maggiormente era il cenone con tutte le famiglie che ci stavano ospitando e il successivo ballo della bottiglia. Dopo la cena, ricchissima e deliziosa, ci posizionammo seduti in un atrio, pronti per assistere alla performance delle donne che avrebbero ballato la bomba con la bottiglia in testa. Era incredibile vederle muoversi con così tanta naturalezza, fare giravolte e passi veloci, con quelle bottiglie che erano lì, ferme e immobili sulle loro teste. E quanto erano allegre mentre ballavano. Ci siamo lasciati trasportare dal ritmo della bomba e dai sorrisi di quelle donne. È stato un momento intensissimo ed emozionante per tutti noi, ci sentivamo coccolati.  Terminata la danza, era il nostro turno. Il trucco era quello di dimenticarsi di avere la bottiglia in testa, ci dicevano. Non ha funzionato per tutti ma è stato divertente provarci. Dopo poco cominciò a cadere la pioggia, sottile e quasi impercettibile. Abbiamo continuato a ballare. Penso che quello fu uno di quegli attimi che capitano raramente nella vita di una persona, in cui riesci ad essere penetrato da una sensazione di estrema libertà e beatitudine. 

Pieni della forza di quelle grandi donne e dei loro sorrisi, stanchi ma soddisfatti della giornata meravigliosa che avevamo passato, ci dirigemmo ognuno nelle proprie abitazioni per passare la notte. E quella notte la ricorderò per tutta la vita perché dopo una giornata così intensa e piena di emozioni positive, non si può far altro che riposare bene e risvegliarsi con una carica incredibile. Ed era la carica che ci sarebbe servita per affrontare il giorno seguente e per conoscere la cruda realtà della casa di accoglienza di dona Carmen, un’altra donna con una storia incredibile da raccontare.

Era ormai mattina e dopo un’abbondante colazione e la visita alla finca dei fichi d’india del signor Jose, ci dirigemmo verso casa di doña Carmen. Appena entrati l’impatto fu forte: due tende al centro dell’atrio che ospitavano famiglie venezuelane. Lo sguardo perso di un’anziana signora che stava consumando il proprio pasto. I suoi nipotini, seduti per terra a giocare con un cucciolo di cane. La loro mamma che parlava a tutti con un tono deciso e forte. Un tono rasserenante che infonde sicurezza. Mi sono venuti i brividi a immaginare la cruda storia che c’era dietro quella famiglia. Ad un tratto questi miei pensieri furono interrotti dall’arrivo di doña Carmen. Cominciò con un flusso di coscienza a raccontarci della sua vita, del luogo in cui eravamo, dei suoi sacrifici. Ogni giorno in quella casa arrivano una grandissima quantità di migranti, venezuelani e colombiani, scappati dalle proprie terre per cercare un posto in cui sentirsi liberi. Un posto in cui riposare le gambe affaticate e stanche, i piedi incalliti ormai a causa delle lunghe camminate. Un posto in cui stendersi su un materasso dalle lenzuola profumate e fresche e avere la sensazione, almeno per un giorno, di sentirsi a casa. Carmen ha da sempre fatto tutto questo da sola, riesce ad andare avanti grazie all’aiuto di alcuni vicini che le danno viveri e beni indispensabili per poter accogliere tutta questa gente. Lei accoglie tutti, non fa distinzioni, non si preoccupa di indagare sul passato di ciascuno. È un posto in cui grandi medici condividono il letto con gente criminale, ci disse Carmen. Ma ognuno di loro è accomunato da un’unica ragione che lo ha portato ad essere lì: la voglia di riposare dopo un interminabile e stremante viaggio. Quindi nessuno può danneggiare l’altro. Nessuno può essere un pericolo per la serenità della casa e per la sua sicurezza. Questa era la convinzione di Carmen, questo pensiero era ciò che la spingeva ad accogliere qualsiasi persona cercasse un rifugio per un breve periodo. I suoi occhi, la sua determinazione, le sue parole decise e cariche di speranza, ci hanno fatto capire che in quei giorni avevamo assistito al miracolo più bello che la natura potesse offrire alla terra: delle donne forti e determinate che danno la propria vita per degli ideali, per la propria famiglia, per le proprie idee.

Il Chota è donna. È una terra amara ma piena di dolcezza. Una terra in cui la carica vitale delle donne che la popolano echeggia forte come un richiamo e attrae chiunque passi per quella via. E noi non abbiam potuto far altro che lasciarci rapire dalla sua energia e dalla energia di tutte quelle grandi donne che hanno un’infinità di cose da raccontare. 

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