Innata bontà

di Valerio Topazio

Il Bianco dall’innata bontà: costrutti e pregiudizi basati su luoghi comuni, perché tutto questo deve finire. 

Ricevo apprezzamenti di stima e complimenti continui per aver fatto la scelta di vivere un anno, qui, in Africa. Certo, una scelta coraggiosa che richiede la rinuncia a molti comfort (non tutti) a cui noi occidentali siamo abituati. Ma ciò che rende una persona, per gli altri (e anche per noi stessi) un angelo sceso in terra o un missionario che va in Africa a salvare i bambini, è la falsa idea di Africa che ci siamo costruiti, inculcati dalla prima infanzia attraverso l’istruzione, i media, la famiglia: dal caldo afoso e torrido, dai bambini poveri ma felici con niente, alla carenza di cibo e acqua. Non nego che questo non sia presente in Africa, è una condizione che esiste, che non va sottovalutata ed esclusa; tuttavia questo pregiudizio se si allarga su ampia scala, come spesso succede, eclissa quei progressi straordinari che alcuni paesi dell’ Africa stanno raggiungendo e, inoltre, fa dimenticare quanto essa sia grande e varia, ogni nazione con una sua storia e una sua cultura. Ma per noi non è così quando pensiamo all’Africa, causa i messaggi continui dei media, le pubblicità, la storia colonialista che abbiamo studiato. Ci dimentichiamo degli aspetti positivi dell’Africa, dei paesi civili in via di sviluppo con un crescente tasso di istruzione, con emergenti leggi sulla disabilità; ci dimentichiamo dello straordinario cambiamento che hanno subito alcune nazioni dell’Africa negli ultimi anni: un’Africa che non conoscevo neanche io. Non voglio passare per ipocrita, anche io mi immaginavo di trovarmi in una nazione, la Tanzania, diversa da quella in cui sto vivendo ora. Circondato da falsi miti e luoghi comuni ho avuto una discrepanza tra aspettative e realtà molto forte, ma in senso positivo, perché le avevo basate su un’idea di Africa comune a noi occidentali. Ecco perché quando gli altri apprezzano ciò che faccio, quando mi scambiano per missionario o vengo visto come tale, non li accetto come complimenti. Non per essere modesto, ma perché così non è. Qui la realtà è completamente diversa da come ce la immaginiamo noi, diversa sia esternamente che internamente. Per quanto riguarda la realtà esterna credo che solo viaggiando e conoscendo posti e persone si possano annullare certi pregiudizi. Per la seconda realtà, quella interna, ha a che fare con una sfera personale, con la consapevolezza del perché si fanno certi viaggi e la reale motivazione che ci spinge a partire. Ed è su questo che voglio soffermarmi perché è spesso affrontata da pochi e, se non affrontata con giudizio, tende a confondere quella che è l’idea del volontario con quella del missionario. Ed è ciò che non voglio che accada. Mi spiegherò meglio, l’idea di questo progetto è stata chiara sin dall’inizio: partire per affiancare e non per sostituire; operare in un progetto che va avanti da anni, dove nessuno ci aspetta e dove senza di noi si va avanti comunque. Il progetto infatti nasce e vuole morire un giorno con la speranza che ciò che è stato costruito possa continuare da solo, con la speranza che si siano dati tutti gli strumenti per essere autonomi. Questo concetto, che potrebbe sembrare banale, in realtà non lo è. Dico questo perché purtroppo la maggior parte di noi occidentali, sulla base dei luoghi comuni, pensa che l’Africa abbia bisogno di noi e che solo gli aiuti occidentali salveranno l’Africa. Questo fa nascere, inconsciamente, quell’aura mistica di missionario facendoci credere che la nostra partenza sia necessaria e fondamentale, offuscando le vere motivazioni per cui si dovrebbe partire per un magnifico continente come questo. 

Per molte persone fare un viaggio in Africa è un’opportunità per aiutare, ma in realtà non fanno che ribadire il loro paternalismo e il loro egocentrismo, riaffermando e rafforzando i sentimenti di “naturale superiorità”, eredità di un passato colonialista: partire, si, ma con il solo scopo di rafforzare il nostro ego. L’idea di essere rincorsi da bambini africani mentre si è su una macchina a salutarli come se fossi il Papa, non fa che aumentare l’ego personale e mentre sentiamo il petto gonfiarsi di orgoglio pensiamo che stiamo facendo qualcosa di buono per il mondo, e il mondo (occidentale) ce lo riconosce. Un circolo vizioso che si autoalimenta. La bontà innata del Bianco: questo egocentrismo europeo, costruzione di un passato colonialista secondo il quale gli europei avevano la missione di “civilizzare” il continente africano. Il Bianco che va in Africa per sostituire e colmare qualcosa che manca. Ma loro non ci aspettano, non aspettano e non desiderano essere contaminati da noi! Certo, i bambini sono felici di stare con noi, ma lo sarebbero anche senza di noi; è vero, stravedono per noi perché diamo loro attenzioni che normalmente non ricevono (per una questione culturale), ma questo non deve farci sentire angeli scesi in terra o missionari. O ci sono altre persone che partono protese nell’atto di aiutare gli altri ma che, in realtà, cela il bisogno di essere aiutate a loro volta. “Salvare” gli altri per salvare se stessi, insomma un grave errore. Varie le ragioni che stanno alla base dell’innata voglia di partire per un continente che affascina ogni occidentale, ma se non si mette a fuoco la reale motivazione, si finisce per alimentare falsi pregiudizi che continueranno a pesare sul continente africano. Prendiamo caso i molti viaggiatori e i tanti volontari occidentali senza un’adeguata formazione, che visitano i paesi africani per qualche settimana. Quando questi condividono sui social alcune immagini con delle frasi, finiscono per alimentare stereotipi razzisti. Sebbene queste pubblicazioni siano solitamente realizzate in buona fede, spesso ritraggono le persone come passive e indifese, e l’autore della foto se ne esce come “l’eroe” che viene a salvarle (e l’ego aumenta). Ma la pelle nera non è merce di scambio per i like, non è attrazione turistica. Questo circolo vizioso è anche dovuto alla “esotizzazione” e alla concezione del popolo nero come oggetto, come qualcosa di impersonale ma bello, visto come cosa esotica e con un bisogno di protezione (infatti fotograferesti mai te stesso a Roma con bambini sconosciuti? Daresti occhiali da sole a bambini qualunque per le vie di Londra?). Per noi bianchi, la pelle nera è sinonimo di aiuto, e quella foto caricata sui social rimarca un pregiudizio insito in noi, prolungando l’idea che solo gli aiuti occidentali possano salvare l’Africa dalla miseria, e l’idea di un’Africa povera che non possa migliorare o essere migliore senza il nostro contributo. Io, ad oggi, dopo otto mesi di Tanzania, non sono ancora riuscito a rispondere a domande che mi pongo da tempo e delle quali probabilmente non avrò mai risposta. Cosa può comprendere una persona, in poche settimane, da un viaggio in Africa? Avrà un bias di conferma di un costrutto, di un’idea sbagliata basata su luoghi comuni a causa di uno scarso approfondimento della cultura e delle persone del luogo. 

Questa critica è la stessa che si fa ai turisti che vengono in Italia e ci vedono mangiare pizza e, magari, in un ristorante nel pieno centro di Roma, saranno anche accolti da una bella suonata di mandolino. E ci sentiremo dire: “pizza, mafia e mandolino”. Ma se noi italiani siamo bravi a fare ironia, i pregiudizi sull’Africa invece pesano eclissando tutto ciò che l’Africa ha da offrirci. 

Insomma, quando vieni qui e vedi che tutti i costrutti occidentali sono basati su menzogne e luoghi comuni, la nostra aspettativa di aiuto scade, e si annulla quell’idea colonialista. Vuoi dare un forte e reale contributo all’Africa? Inizia a cambiare modo di vedere la realtà; non dimenticarti di mettere in dubbio la tua motivazione prima di partire; rendi consapevole il perché delle tue azioni; parti in silenzio e, soprattutto, silenzia il tuo ego. 

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